AAA Barolo cercasi: l’Aglianico risponde
Alzi la mano chi non ha mai sentito definire l’Aglianico il “Barolo del sud“. Premettendo che non amo i paragoni – soprattutto quando si parla di vino, dato che reputo ogni espressione vitivinicola tipica e unica del suo territorio di origine e della cultura che vi opera – bisogna ammettere che un fondo di verità solitamente c’è e che possono essere utili. Infatti, raccontare un vino richiamandone alla memoria un altro è il modo più semplice e diretto per parlare a un consumatore inesperto di qualcosa che non conosce e presentarne gli aspetti positivi. Va da sé che è molto più facile trovare persone che abbiano una minima idea di come sia (o debba essere) un Barolo, piuttosto che un vero esperto di Aglianico; sicuramente anche a causa dello ‘status sociale’ raggiunto dal Barolo e dal suo prestigio sui mercati e le tavole internazionali, nonché della tendenza altrettanto diffusa a considerare i vini del sud di qualità inferiore o comunque troppo ‘spessi’, ‘forti’ e sgraziati. Ma al di là della comodità nella comunicazione, l’accoppiata Nebbiolo-Aglianico – o Barolo-Taurasi se vogliamo ribaltarla sul piano delle denominazioni – si rivela vincente per vari motivi. Dalla vigna alla tavola, ritroviamo i punti salienti alla base di questo luogo comune.
Il legame con il territorio
La prima fonte di unicità è sempre la zona di origine, ma nel nostro caso il legame vino-territorio è particolarmente stretto: sia il Nebbiolo che l’Aglianico, infatti, hanno una grande capacità di veicolare nei vini sottili differenze riconducibili alla composizione dei suoli. Il primo, è una varietà davvero ‘capricciosa’, che non si adatta facilmente a nuovi climi e territori; necessita di condizioni particolari per maturare al meglio e queste sembrano realizzarsi in modo appropriato soltanto in piccole aree d’elezione. Di conseguenza, il 95% del Nebbiolo su scala mondiale si coltiva in Italia, suddiviso tra Piemonte (Langhe, Roero, zona del Rosa), Valle d’Aosta (Donnas) e Lombardia (Valtellina), per un totale di circa 4800 ettari. Avremo modo di approfondire in futuro le varie espressioni di questo vitigno, ma basti pensare a come il Barolo mostri in degustazione caratteristiche distintive a seconda del cru di appartenenza.
Al contrario, l’Aglianico è molto più diffuso, ma anche nel suo caso le aree considerate vocate sono limitate: quella del Taurasi, in Irpinia, le pendici del Vulture, in Basilicata, l’area nel nord della Puglia al confine con la Campania e una piccola parte di Molise. Le differenze principali tra i vini provenienti da queste zone sono legate al tipo di suolo – vulcanico nel caso del Taurasi e del Vulture, prevalentemente calcareo-argilloso o alluvionale altrove – con diretto impatto sull’acidità e sulla trama dei tannini. Ormai, i cambiamenti climatici hanno ridotto la differenza di potenziale alcolico tra Aglianico e Nebbiolo, per cui non è più così raro trovarsi di fronte a un Barolo che faccia 14-14,5% vol, e sempre le temperature, che ovviamente restano in ogni caso più alte al sud, sono alla base del crescente interesse da parte dei produttori per i vigneti ‘in quota’, che in alcuni punti superano gli 800 m di altitudine.
Uve e vino
Le caratteristiche principali di un Barolo sono la sua straordinaria longevità e l’eleganza derivata dall’equilibrio tra frutto, acidità e tannini. Lo stesso vale per un Taurasi, che necessita di un lungo periodo di affinamento per domare i tannini e armonizzare le sensazioni acide. Questa similitudine è all’origine del titolo di Barolo del sud, mentre l’intensità aromatica di solito è maggiore nei vini a base Aglianico. Non significa che non esistono differenze a livello organolettico, ma semplicemente che nel panorama dell’enologia campana (e delle regioni meridionali più in generale) non si trovano altri esempi di vini così fortemente caratterizzati da un lungo processo di affinamento e riconducibili a uno stile basato sull’incontro armonico di struttura, corpo e finezza. Queste caratteristiche vanno interpretate per ogni vino in relazione alla sua zona d’origine e alle condizioni pedoclimatiche che vi regnano, ma hanno pur sempre radici in due varietà di uve per certi versi molto simili: sia il Nebbiolo che l’Aglianico godono di un alto contenuto di acidi, tannini e zuccheri, i tre elementi indispensabili per garantire al vino una lunga vita. Diversa è invece la carica colorante delle uve: il Nebbiolo produce quasi sempre vini molto scarichi, mentre l’Aglianico dà origine a vini dal colore intenso. La causa è la diversa percentuale presente nel vitigno di ciascuna delle 5 antocianidine, le responsabili del colore dell’uva e del vino. Ogni antociano apporta una determinata sfumatura al vino, tendente più al rosso o al violaceo. Durante e in seguito alla fermentazione, alcuni di questi antociani decadono più facilmente degli altri. Di conseguenza, il Nebbiolo, che abbonda di peonidina (fortemente instabile), produrrà vini scarichi di colore e tendenti all’aranciato, mentre l’Aglianico, ricco di malvidina, conserverà un colore intenso e sfumature violacee.
L’affinamento è una fase fondamentale tanto per la nascita di un Barolo quanto per quella di un Taurasi, anzi, ancor più nel secondo caso. L’acidità e il contenuto di tannini dell’Aglianico sono ancora più elevati rispetto al Nebbiolo e il vino necessita di più tempo per ‘ingentilirsi’. Se è possibile trovare ottimi Baroli giovani, non si può dire altrettanto dei vini a base Aglianico, che spesso iniziano a dare il meglio di sé solo dopo 8 anni dalla vendemmia. I disciplinari di produzione rispecchiano questo bisogno di ‘riposo’: un Barolo è tale solo dopo 38 mesi di affinamento, di cui almeno 18 in legno (a decorrere dal 1° novembre dell’anno di vendemmia); un Taurasi/Aglianico del Vulture dopo 36 mesi (dal 1° dicembre dell’anno di vendemmia), di cui almeno 12 in botti di legno. In entrambi i casi, il periodo è notevolmente più lungo per la menzione “riserva”. Per quanto riguarda il tipo di contenitori utilizzati, la moda della barrique si è forse imposta meno in Irpinia che tra le colline del Barolo. Tradizionalmente, il Taurasi riposa in grandi botti di legno, ma oggi i vini migliori sono frutto di un sapiente mix dei vari metodi disponibili. Una volta raggiunta la nostra cantina personale, facciamo solo attenzione a conservarlo al meglio.
Il pranzo è servito
Dulcis in fundo, gli abbinamenti, perché un vino è fatto per essere bevuto ma si apprezza al meglio solo se sostiene e viene sostenuto da un buon piatto. Piemonte e Campania condividono alcuni aspetti della tradizione culinaria e in entrambe le regioni non manca il posto per un vino importante come solo il Barolo e il Taurasi sanno essere. Più le pietanze sono gustose, più richiedono un vino che non scompaia in loro presenza, capace allo stesso tempo di aggiungere ricchezza al tripudio di gusto presente nel cibo e di ‘alleggerire’ il pasto grazie all’acidità e ai tannini, che contribuiscono a pulire la bocca. Ragù e sughi ricchi impreziosiscono i tajarin così come la maccaronara, lo stracotto al Barolo strizza l’occhio alle zuppe di legumi (i fagioli sono un classico anche nella cucina popolare piemontese) e in provincia di Avellino non mancano né i sanguinacci né il tartufo (di Bagnoli Irpino). Insomma, anche al sud serve un ‘Barolo’.
Dal punto di vista organolettico, entrambi questi rossi spaziano dai frutti rossi, maturi o sotto spirito a un mix di spezie (tipico il pepe nero) e terziari derivati dall’affinamento. Non mancano nemmeno le note floreali; in particolare, il Taurasi mostra un curioso sviluppo di sentori di viola tra i 15 e i 30 anni di invecchiamento. Sempre che si riesca a resistere così a lungo alla tentazione di stapparlo (o non si abbia un Coravin). Ai più bravi in cucina lasciamo il piacere di raccogliere la sfida e dilettarsi in una cena ‘incrociata’ con piatti della tradizione sia piemontese che irpina accompagnati rispettivamente da un Taurasi e da un Barolo. Unica condizione: poi ci raccontate!
I magnifici 7
Consigli spassionati – denominazioni a base Aglianico e Baroli, tra sorprese e conferme. Prosit!