Finanza e vino: diavolo e acqua santa
Investite in vino che, male che vada, lo si può bere.
Il vino in Italia viene da decenni considerato “il petrolio” dell’agroalimentare nazionale. Molti sono i grandi appassionati di vino e, tra i grandi nomi, ricordiamo il fondatore della FIAT, Giovanni Agnelli, con la sua celebre frase: “investite in vino che, male che vada, lo si può bere”.
Allora perché il vino italiano continua ad essere lontano da Piazza Affari?
Il settore diventa sempre più attraente, ma ad essere quotati in borsa, a parte il gruppo Campari (che ha in portafoglio Cinzano, Riccadonna e Mondoro), sono soltanto in due: Italian Wine Brands, l’unione di Giordano Vini e Provinco Italia, e Masi Agricola.
Gli ultimi anni hanno visto l’Italia protagonista di un grande aumento sia nella produzione (battendo la Francia), che nelle vendite, soprattutto quelle estere, trainate in modo particolare dal fenomeno Prosecco. I grandi vini rossi (come Brunello, Barolo e Amarone) non perdono certo colpi; c’è una grande rinascita del vino rosé e l’estero apprezza molto i nostri vitigni tipici.
I paesi di maggiore importanza per l’export di vino italiano sono il Regno Unito, la Germania e soprattutto gli USA: i recenti avvenimenti politici di Brexit e di Trump hanno suscitato dubbi sulle previsioni riguardanti il costante alto valore delle vendite estere, ma per ora, stando ai dati dell’ultimo rapporto Mediobanca, le notizie sono sempre buone…E allora ci chiediamo nuovamente: come mai vino e finanza non vanno d’accordo?
“La finanza è un mezzo, non un fine (…) Non possiamo continuare a vedere Borsa e vino come diavolo e acquasanta: sono due fattori di produzione in un settore che ne ha estremamente bisogno e devono andare a braccetto”: questo è il commento di Sandro Boscaini, presidente di Masi. La Borsa per il vino italiano è per tradizione un po’ tabù. Il mondo conta svariati esempi di aziende di vino quotate in borsa, ma le differenze nazionali dai dati di Mediobanca sono importanti: in Italia sono vari i fattori da analizzare per capire come mai questo ancora non avviene, e non sono molti quelli economici.
Ricordiamo che il vino italiano nasce dai contadini, e che molti italiani rimangono convinti che il marketing sia una “americanata”; aggiungiamo che le più grandi realtà italiane di vino sono ancora in parte permeate dalla mentalità provinciale neo-borghese di chi non vuole andare a spifferare i propri numeri in giro. Vi sfido a trovare realtà più complesse di quelle del vino in Italia: è tutto un gioco di psicologia, sociologia e piccole realtà. Purtroppo di economia c’è ben poco.
E’ proprio questo il problema della realtà vitivinicola italiana: tutti fanno vino, ma nessuno vuol fare wine business. Il che, da un certo punto di vista, può essere considerato un bene, perché si continua a mantenere una grande qualità e un alto nome del vino made in Italy. Ma a cosa serve fare un gran vino se non può essere conosciuto da tutti e se non lo si sa vendere? La “nicchia” del vino è un insieme di controsensi: di chi vuole più comunicazione e vendite, ma non investe che su macchinari e non svela mai tutto sul proprio prodotto. Eppure si può avere una nicchia anche con un modello di business diverso.
Il settore del vino in Italia resta sempre un discorso di famiglia. Se per forme familiari contiamo anche le cooperative, il totale italiano del patrimonio netto familiare nel vino tocca il 76,8%. Bisogna adattarsi al mondo esterno adesso però, e adottare un nuovo modello. La crescita dimensionale si può avere solo se si sanno gestire risorse economiche e finanziarie e ciò si può fare soltanto cambiando modello di business. Una delle poche realtà italiane ad averlo capito è il Veneto dove, non a caso, i destini delle aziende sono intrecciati con quelli di grandi banche. Vi sono anche delle importanti aziende di vino italiane che, nonostante facciano grandi numeri, continuano a vendersi come piccole realtà e vengono ormai considerate di lusso per la media italiana. Questo è un buon metodo da seguire, tenendo come esempio il lusso italiano, se vogliamo rimanere lontani dal mass market, o fare come Constellation Brands: bisogna accorpare, creare gruppi di imprese con trasparenza. Creare delle holding con dei marchi. Con il patrimonio storico che vantiamo, possiamo anche lasciar stare la Borsa, ma dobbiamo diventare forti nel commerciale.
Dobbiamo imparare ad associare ciò che abbiamo di più caro: l’artigianato, la qualità e il mondo bucolico, all’attualità: ossia piani di crescita industriale, controllo di gestione, le culture di ogni mercato dove vogliamo esportare, il digitale. Non serve arrivare a piazza Affari, ma basta un cambio di mentalità: il produttore deve imparare ad avere la testa di un imprenditore e il cuore di un contadino.
Ci sono colossi nel mondo che vengono in ogni caso associati ad ottima qualità di prodotto: è la mentalità italiana quella che va cambiata. Ciò di cui da una parte ci vantiamo e che sicuramente ha della bellezza senza tempo, è anche ciò che ci impedisce di entrare a far parte del mondo esterno… può anche essere una scelta.
Il clima sta cambiando, il digitale fa ormai numeri da capogiro, la Spagna ci ruba vendite e anche la Moldavia porta ormai i suoi vini in giro per il mondo. Per quanto ancora il Made in Italy e il fascino del vino potranno salvarci se non ci evolviamo almeno quel minimo necessario per sopravvivere nel mondo commerciale attuale?